“Ormai è fatta, dimentichiamo tutto e andiamo avanti!”
La mattina in cui ho abortito faceva caldo, moltissimo. L’estate a Cassino è infernale, l’afa ti si attacca addosso e ti scioglie le ossa. Era un mercoledì, ed ero stata in ospedale già il lunedì precedente. Abortire con la RU486 significa infatti prendere due pillole a distanza di due giorni; per la prima bisogna rimanere in reparto circa 4 ore, per la seconda almeno 6/7, per avere la sicurezza che il medicinale agisca correttamente e che non ci siano effetti collaterali.
Nel corridoio del servizio donna c’era anche il reparto ortopedico, con persone ingessate, sulla sedia a rotelle, con le stampelle.
Eravamo in quattro ad abortire. Quattro donne di varie età, con storie tanto diverse alle spalle, ma tutte lì per lo stesso motivo. Una di noi aveva avuto l’ennesimo aborto spontaneo ed era già la seconda o terza volta che andava in quell’ospedale per prendere la pillola.
L’atmosfera non era ospitale: nonostante le dottoresse e le infermiere fossero donne, c’era disinteresse, sciattezza, noncuranza delle persone che avevano davanti. E soprattutto eravamo sole. Non poteva accompagnarci nessuno. Solo noi e i sanitari.
La cosa che ricordo con più fastidio è l’atteggiamento della dottoressa, seduta dietro una scrivania, che scriveva al pc. Non faceva altro che quello: mentre mi diceva cosa fare e cosa non fare, mentre io le facevo delle domande, mentre le chiedevo cosa stesse succedendo al mio corpo, tramortito dal dolore. Non mi ha guardato in faccia mai, gli occhi sempre rivolti allo schermo del computer, le mani impegnate a digitare rapidamente sulla tastiera.
La mattina del mercoledì sono arrivata in macchina insieme ad un’altra di quelle quattro ragazze, abbiamo parlato di tante cose nel tragitto da casa all’ospedale. Lei mi ha raccontato della sua vita, della famiglia, del suo paese di origine. Anche io mi sono un po’ aperta con lei. Parlavamo normalmente, non ci sfiorava neanche l’idea che di lì a poco avremmo perso quella spensieratezza, risucchiata dalla pesantezza dell’afa mista ad apparente indifferenza stracolma di ostilità che ci stava aspettando tra le mura dell’ospedale.
Le regole per quella mattina erano molto chiare: mangiare qualcosa di leggero, se proprio dovevamo, altrimenti meglio non fare colazione. Vietato bere acqua o sgranocchiare durante le sette e passa ore che si prospettavano davanti a noi. Dovevamo portarci gli assorbenti, perché avremmo perso molto sangue, e gli antidolorifici per il ciclo, perché avremmo avuto i crampi.
Ci hanno messo in una camera di ospedale con due soli letti, un armadietto e qualche sedia. Finestre giganti e la porta di un bagno chiusa a chiave. L’infermiera ci ha detto sin da subito che avremmo potuto usare solo il bagno del corridoio, senza chiave, senza carta igienica, ma soprattutto l’avremmo diviso con tutto il reparto. Da quel bagno entravano e uscivano anche gli altri pazienti di ortopedia, e gli operatori sanitari che lavoravano lì.
Le ho chiesto la carta igienica, e lei mi ha detto: “Non vi siete portati i fazzoletti da casa?”. In genere rispondo. Ma quelle sue parole mi hanno seccata. Dopo un secondo di ricognizione, le ho detto “No, dovevamo?” ma lei se ne era già andata. Nella stanza comunque c’era un armadietto, che ovviamente non potevamo aprire, dove c’era la carta che poi abbiamo usato. Di nascosto. Quando sono finiti i fazzoletti.
Abbiamo chiesto più e più volte di farci aprire il bagno della stanza e sempre quell’infermiera ci ha detto: “Non abbiamo la chiave”. Le abbiamo parlato in tutti i modi: supplicandola, con toni imperativi, invitandola gentilmente a trovare un modo per aprire quella porta. La risposta è stata sempre la stessa.
È successo quindi che il bagno fosse occupato e noi quattro, con emorragie intense, nausea e doglie del parto, non siamo potute entrare. Oppure è successo che mentre eravamo dentro, persone sconosciute hanno aperto la porta perché avevano bisogno del bagno.
Dopo un paio di ore dalla prima pillola, l’infermiera ce ne ha data un’altra, e lì è iniziato il travaglio vero e proprio. Io, che non ho mai sofferto per il ciclo (e quindi non avevo portato antidolorifici), ho iniziato ad avere i crampi per tutto il corpo e per distrarmi mi sono messa a camminare per il corridoio. Sempre la stessa infermiera, dopo un paio di vasche su e giù, mi raggiunge e mi dice con toni dolcissimi che non era bello che io camminassi davanti ai pazienti ortopedici che non potevano muoversi. E che non era bello in generale che io mi muovessi per il corridoio. Le ho detto che avevo bisogno di camminare e lei mi ha risposto, in tono deciso, che non potevo stare lì; se volevo muovermi, dovevo farlo in camera.
In camera. Dove lo spazio era occupato dai due letti, dall’armadietto e da qualche sedia. Intanto lì dentro facevamo a rotazione per sdraiarci: avevamo iniziato a stare male, e volevamo tutte stenderci. Tra un crampo e l’altro, sono andata al bagno con un senso di nausea fortissimo, e mentre ero lì, un operatore apre la porta e non la chiude: per qualche minuto tutto il corridoio mi ha visto stare male abbracciata al water, e più io gli chiedevo di uscire e chiudere la porta, più rimaneva. Sono arrivate le infermiere per controllarmi e mi hanno riportato in camera, mi hanno fatto stendere e, mentre deliravo per il dolore, hanno avuto il coraggio di chiedermi “Non hai portato gli antidolorifici per il ciclo?”. Io ero incapace di parlare, e loro volevano farmi un’iniezione. Nell’impossibilità di reagire, sono riuscita a chiedere cosa mi stavano mettendo in corpo, e che non mi sarei girata finché non me l’avessero detto. Alla fine era Plasil, un medicinale contro la nausea. Fatta l’iniezione, sono svenuta per mezz’ora. Al risveglio mi hanno dato una terza pillola, ma ormai il peggio era passato.
Le mie compagne di stanza, intanto, chiedevano acqua, un thè, qualsiasi cosa, perché stavamo lì da ore, a digiuno, ma niente. Dopo l’ecografia di controllo la dottoressa che mi ha visitato, sempre guardando il pc, mi ha prescritto vari farmaci senza dirmi di cosa si trattasse. Le ho chiesto spiegazioni e lei, con voce annoiata, ha preso la lista e mi ha ripetuto i nomi delle medicine, aggiungendo “questo è per il ferro, perderai molto sangue. Questo è un detergente. Questa è la pillola. Buona giornata”.
Sono rimasta, ho insistito: “La pillola?” e lei: “Certo, se non vuoi tornare qui un’altra volta devi prendere la pillola”. Le ho detto: “E come devo prenderla? Per quanti giorni devo sospenderla?” e lei, sempre guardando il pc: “Fattelo spiegare dalla tua ginecologa. Buona giornata.”
Buona giornata.
Dopo l’ospedale io e la ragazza con cui sono venuta non siamo tornate subito a casa: ci siamo fermate ad un fast food per mangiare. Avevo fame, ero a digiuno dalla sera prima. E poi avevo i crampi. Queste due sensazioni facevano a cazzotti nel mio stomaco, e io mi sentivo estranea al mio corpo. Dopo aver mangiato, sono svenuta dalla stanchezza. L’altra ragazza parlava, parlava, parlava. Io non ce la facevo ad ascoltarla, il mondo fuori da me era mio nemico.
Volevo solo andare a letto, piangere, ricevere amore. Lì in ospedale ero in modalità “difesa”, tutti erano passati sopra ai miei bisogni senza chiedermi il permesso, senza scusarsi.
Mentre eravamo in macchina, la mia compagna di avventura ha detto “Certo che ci hanno trattato proprio male, eh. L’unica con cui sono state più gentili è stata la ragazza con l’aborto spontaneo”. E poi ha aggiunto una cosa che mi ha ferito molto: “Ormai è fatta, dimentichiamo tutto e andiamo avanti!”
Per me questo non vale.