La finestra sul cortile

La sigaretta che sto fumando è l’ultima di un pacchetto comprato un mese fa. Osservo la mia mano che la porta alla bocca e voglio godermi questo gesto perché so che passerà un po’ prima che ricompri un nuovo pacchetto. Sono sul balconcino della cucina, in sottofondo ci sono le voci della serie “La regina Carlotta” che sto vedendo con la mia coinquilina Mary: è domenica ed è anche la Festa della Mamma. Io sono a Roma lontana dalla mia mamma sia in questa giornata sia in quelle precedenti e successive. Ed è inevitabile perché ho scelto di vivere in una città diversa da quella dove c’è la mia famiglia.

Davanti a me c’è un cortile con un palazzo alto, i balconi e le finestre tutti uguali: li guardo uno per uno e non riesco a fare a meno di immaginare che l’architetto abbia disegnato un solo balcone con due finestre e poi abbia trascinato questo modello per tutto il foglio di progettazione, per tante righe e colonne quanti sono oggi i piani del palazzo. Un po’ come si fa con le tabelle di Word.

Comunque quando ero piccola, la domenica la passavo sempre dai nonni materni o paterni nelle loro case indipendenti e spaziose. C’entravano tante persone, tanto cibo, tante chiacchiere, anche tante discussioni. Io invece abitavo in un appartamento, una casa più piccola della loro, in cui ero sola con mia madre e mio padre. Quando la domenica capitava di non andare dai nonni, ero triste: associavo quel giorno all’idea della festa, un’occasione speciale in cui fare cose diverse dal quotidiano, all’abbondanza – di spazi, di persone, di cibo.

Se ci rifletto bene, in realtà, scopro che questi ricordi non sono davvero felici come mi sembravano da piccola, ma tra loro si insidiano delle zone in cui l’ombra è fitta. In quelle case c’era sempre un clima di grande tensione. Ci sedevamo a tavola – nella casa dei nonni materni tutti insieme, in quella paterna i bambini mangiavano divisi dagli adulti, anche a 18 anni – e si discuteva. Per ogni cosa. Tutti erano sempre in disaccordo con tutti, ma non si trattava di semplici punti di vista diversi sui quali confrontarsi: era una specie di lotta di supremazia, una gara estenuante ad imporre all’altro la propria opinione. C’erano un vago senso di inferiorità e di sfida nell’aria, per cui avere ragione era una questione di principio: se non la pensiamo uguale non sei degno di sedere qui accanto a me, a questa tavola.

Se dovessi dare un’immagine a quello che avveniva durante quelle discussioni, sarebbe quella di una persona che con un megafono cerca di aprire in due la testa di un’altra per riempirla con le proprie parole, fino ad entrarci completamente dentro.

E se non si fosse discusso, durante quei pranzi ci sarebbero stati comunque dei silenzi difficili da interrompere. Restavano anche quando si provava a riempirli con le parole, spesso superficiali e ridondanti, perché quei silenzi venivano da dentro. Da qualcosa che ognuno a quella tavola metteva a tacere per evitare litigi e rimanere seduto il più possibile. Per completare l’immagine di prima, quando una persona riusciva ad aprire la testa dell’altra, quest’ultima non reagiva ma rimaneva ferma, impassibile, con l’interruttore del cervello puntato su Off.

Fin da subito ho imparato il silenzio. Me lo sono fatto amico e mi ha accompagnato per anni; dovunque andassi, lui arrivava prima di me, e mi portava per mano a conoscere le situazioni che poi avrei abitato. Non è stato difficile convincermi che essere adulta significa avere la forza mentale per sostenere discussioni lunghe interi pranzi che continuavano anche a casa, o addirittura la domenica successiva; o avere la capacità di mettere a tacere proprio quelle parti di me che portano ad un confronto, per evitare che diventi scontro, litigio, lotta di potere.

Non è stato facile capire che quello era solo uno dei tanti modi per essere adulta e che io potevo scegliere il mio. E l’ho capito grazie alla distanza, perché a stare seduta a quelle tavole anche il mio cervello era in modalità Off. Ho capito che ognuno ha il suo modo di crescere e lo fa al massimo delle sue capacità e potenzialità e non è colpa di nessuno se si creavano quelle situazioni: che rendersi conto del contesto che si abita è un vero e proprio privilegio e decidere di non subirlo è l’atto di un folle che vuole vedere arcobaleni in un mondo che gli hanno insegnato essere in bianco e nero.

In fondo essere adulti è anche l’arte di incontrarsi e confrontarsi, di unire le proprie voci, anche quando sono discordanti, e creare un discorso complesso in cui può esserci tutto: punti da mettere di comune accordo perché di questo abbiamo parlato tanto ma ora cambiamo argomento altrimenti non ne usciamo più; virgole perché ho una cosa interessante da dirti ma devo riprendere fiato dopo tutto questo parlare; punti e virgola perché non sapevo niente di tutto ciò, ora faccio una ricerca e ne riparliamo; due punti perché non mi sono spiegato abbastanza bene; punti interrogativi perché anche se questa cosa me l’hai detta già tre volte, io proprio non la capisco; punti esclamativi perché non sono d’accordo con te però è bello il modo in cui hai espresso la tua opinione. Che, in fondo, le cose su cui prima mantenevo il silenzio sono proprio quelle che arricchiscono le conversazioni. E che, a proposito di silenzio, essere adulti è l’arte di inserirlo quando le parole hanno già detto abbastanza, e bisogna lasciar incontrare gli sguardi, i sorrisi, le mani.

Se dovessi dare un’immagine a queste parole, sarebbe un’istantanea di sei persone attorno ad un tavolo per cena, sedute ognuna a modo suo, chi composta, chi con le gambe accovacciate, chi con un piede sulla sedia, chi in finestra a fumare, che parlano mentre dalle loro teste cresce una pianta rigogliosa.

Oggi, su un balconcino di fronte casa mia, vedo delle persone che fumano. Per loro questo è il pranzo domenicale e lo stanno trascorrendo in una casa piccola di una periferia di Roma. Mi viene un leggero e antico senso di tristezza come quello che provavo quando ero piccola e rimanevo a casa mia di domenica. Poi penso alle tavole apparecchiate e alle persone sedute lì attorno: ai discorsi che fanno, agli sguardi che si scambiano, agli abbracci in cui si stringono. Alle cose che (non) mettono a tacere dentro di loro e ai mille modi che trovano per parlare, per esprimersi, per essere adulti.  

E ho immaginato la tavola delle mie domeniche. Quella dei nonni paterni non è più apparecchiata da anni, ormai. Non so neanche chi ci abita in quella casa, se qualcuno continua a cucinare, se si siede a quella tavola e sente l’odore delle fettuccine ai funghi di cui mi sembravano impregnate le mura. Non so se qualcuno si ama o continua a litigare, tra quelle pareti.

La tavola dei nonni materni invece è sempre apparecchiata. Però le persone che erano sedute lì, piano piano, si sono alzate e se ne sono andate, e ne sono rimaste sempre meno. La quantità di cibo, invece, è tuttora invariata. È curioso che, alla fine, io sono una delle persone che si è alzata da quella tavola; e trascorro la domenica in un appartamento piccolo, con un balconcino piccolo, in una periferia di Roma, cioè nel luogo in cui ho scelto di vivere, con delle persone amiche. E mi sembra davvero una bella domenica.

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. A me mancano molto quelle domeniche dai nonni… soprattutto quelle estive: finestrone della cucina aperto con la tenda alzata per far passare l’aria, zampironi accesi ovunque perché con il finestrone aperto entrava la qualunque, 10 persone a tavola ma io sempre a quella dei “piccoli” fino a 27 anni, negli ultimi anni insieme ai nipoti. Ora quelle domeniche si svolgono a casa mia dai nonni dei miei nipoti che sarebbero i miei genitori. È strano pensarlo, ma il futuro alla fine è arrivato… ma non ne sono ancora protagonista, continuo a sedere alla tavola con i nipoti che intanto crescono, un giorno spero di sedermi anch’io alla tavola grande e lasciare qualche bambino assieme ai miei nipoti… chissà

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    1. ailuig91 ha detto:

      ma tu adesso a quale tavola preferisci sedere?

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