Pensarci liberi

il

Si fa un gran parlare di libertà.

Come se fosse necessario comprenderla, penetrarla con la mente, esaurirne il concetto a parole.

Ma tutto questo parlare, parlare, parlare, questa volontà di razionalizzarla, non nasconde, forse, la stessa impossibilità dell’uomo di viverla?

Forse che tutto questo parlare di libertà è un modo per allontanarla da noi, perché alla fine l’unico modo per essere liberi è esserlo. E non parlarne.

Quante volte pensarci liberi ci appaga e ci permette, poi, di non esserlo veramente?

Forse la libertà è un’utopia, è un’astrazione che ci aiuta a vivere: vivo per la libertà, combatto per la libertà, muoio per la libertà.

È un rifugio che la nostra mente crea per poter tendere a qualcosa di infinito ed indefinito, per rifugiarsi in un ideale che sposta i nostri limiti e la nostra capacità di sopportare sempre un po’ più in là.

Pensarci liberi ci permette di non affrontare i legami e le catene che ci ancorano alla terra, che ci avvolgono alle persone, che ci impediscono di andare avanti se prima non riusciamo a chiudere con il passato.

Come se dentro di noi non potesse convivere tutto: il passato, il presente, il futuro.

Ciò che abbiamo desiderato, ciò che non riusciamo a smettere di volere, anche se non lo abbiamo più.

Come se pensarci liberi da questo ci rendesse più leggeri, ci desse l’impressione di non dover affrontare la nostra schiavitù terrena ed emotiva, la nostra inevitabile dipendenza da ciò che amiamo, da ciò che ci ferisce.

Pensarci liberi, forse, è il modo per fare meno fatica. Perché l’alternativa è comprendere i nostri legami, le nostre ferite, i nostri bisogni, e imparare a gestirli.

E far convivere tutto in noi. Sforzarci di trovare un posto a qualcosa che vaga nei nostri spazi interni alla ricerca di attenzione, di collocazione.

Pensarci liberi è, in effetti, il modo migliore per non esserlo.

Per non ammettere che non nasciamo liberi, che sin da neonati dobbiamo dipendere necessariamente dalle cure di qualcuno. E che da adulti continuiamo a dipendere: dal denaro, dal cibo, da qualche sostanza, dall’alcool, dalle persone, dall’amore, dalla solitudine, dal dolore.

Per non ammettere che, in realtà, uno dei nostri desideri più veri ed irrazionali è proprio quello di cedere a qualcuno una parte della nostra presunta libertà per ricevere in cambio quella cura, quelle attenzioni e quell’amore che ci fanno sentire accettati, parte di qualcosa, avvolti nella protezione di uno sguardo che comprende, di un abbraccio che lenisce.

Tornare a casa a fine giornata, chiudere la porta, e sapere che, da lì in poi, andrà tutto bene.

Forse la libertà è l’utopia di chi non è in grado di accettarsi, di vedere le proprie ferite e baciarle, accarezzarle; di chi pensa che quelle ferite siano responsabilità di qualcun altro, e sta agli altri curarle.

Forse, l’unica vera libertà è riconoscerci responsabili delle nostre fratture emotive, di quelle ferite che sì, ci causano gli altri, ma che noi non siamo in grado di vedere, di sentire, di richiudere, di sanare.

Ferite che continuano a farci sanguinare, e che feriscono a loro volta coloro ai quali imputiamo la nostra salvezza.

Non c’è libertà senza la consapevolezza, momento per momento, che ciò che ci salva è la nostra capacità di riconoscere ed accettare ciò che ci uccide.

3 commenti Aggiungi il tuo

  1. Alessandro Gianesini ha detto:

    Eh, pensare rende liberi, ma si è liberi quando non si pensa: una bella antitesi, no?

    (cerca da me: Jukebox #6 e Riflessione #10) 😉

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    1. ailuig91 ha detto:

      Ora mi metto in pari con tutto 😂 per il resto, non so che pensare 🥰

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      1. Alessandro Gianesini ha detto:

        Fai con calma: passo da montagnina! 😉

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