Quel pomeriggio di luglio il caldo era più insopportabile degli altri giorni.
Io mi giravo e rigiravo nel letto della camera di mia madre in cerca di un angolo fresco che però non c’era.
Più mi muovevo, più producevo calore, ma più stavo ferma, più andavo a fuoco.
La finestra era aperta, le persiane abbassate. Era quasi buio, anche se erano le tre del pomeriggio. La luce debole che entrava nella camera illuminava appena i contorni di quel luogo a me tanto familiare.
Vedevo soprattutto i bordi del letto e il muro adiacente alla finestra, i due luoghi più luminosi.
Fuori tutto taceva.
Il tempo era immobile, sembrava che il caldo lo avesse cotto, e me lo stesse servendo fumante, al punto che se mi fossi alzata da quel letto mi sarei scottata.
Ma chi voleva alzarsi da lì!
Se c’era una cosa più forte del caldo era il senso di nausea. Ogni piccolo movimento era un rimescolio di liquidi, un sobbalzare di viscere, un giramento di testa.
Quel malessere fisico era più di quanto potessi sopportare.
Ero incinta da appena un mese, e dal momento in cui l’ho scoperto non c’è stato un solo istante in cui io abbia pensato di portare avanti quella gravidanza.
Non c’è stato dolore nella scelta dell’aborto.
Sceglierlo è stato facile come respirare.
Durante quel pomeriggio bollente, però, è successo che, per un secondo, ho smesso di pensare per me e ho iniziato a pensare per il mucchio di cellule che cresceva nella mia pancia.
Quel punto di vista mi faceva stare male, perché mi sentivo costretta a sacrificarmi per il bene di qualcun altro.
Sentivo che le energie che avrei potuto spendere per me, per crescere, per maturare, per migliorarmi, avrei dovuto impiegarle per dare un futuro ad un altro.
E io non volevo pensare ad un altro. Né volevo quella gravidanza.
Nella scelta se abortire o meno, è fondamentale decidere ciò che ci fa stare bene: non ciò che vuole la famiglia, non il partner, non la società, non il mucchio di cellule che cresce nel nostro corpo.
Eppure alcune persone non hanno la possibilità di scegliere.
Vivono in contesti talmente complessi, caratterizzati da una forza centripeta che ingloba qualsiasi cosa, soprattutto la volontà del singolo.
O peggio, in paesi che, con la legge, vietano qualsiasi decisione, reprimono qualsiasi spazio di affermazione.
Paesi che irrigidiscono così tanto la possibilità di scegliere, che alla fine diventano la rappresentazione, cinica e brutale, della mancanza di alternative che una persona ha dentro di sé.
Decidere è un atto di autoaffermazione, il modo più rapido e diretto di dire “Io esisto, e con il mio sentire rivoluziono il mondo”.
Decidere significa anche mettersi contro chi vorrebbe per noi qualcosa di diverso. Chi vorrebbe controllarci.
Allora merita un’accurata riflessione il tema dell’autodeterminazione: il fatto che una persona debba essere libera di scegliere per il proprio bene senza che la società ne faccia un dramma. Senza che le istituzioni lo vietino. Senza che i nostri corpi diventino il campo di battaglia di scontri politici.
Perché ogni discussione che investe e comprime le libertà personali non ha niente a che vedere con la difesa dei diritti, ma è solo espressione di controllo.
Ecco allora che non si tratta più di diritti da riconoscere, ma di potere da esercitare.
Da questo punto di vista, fa comodo considerarci fragili e impotenti di fronte ad una cosa spaventosa e dolorosa quanto l’aborto. Deboli al punto che qualcuno debba riconoscerci dei diritti che però ci appartengono.
L’aborto viene narrato sempre in modo doloroso, sofferente, come un trauma per la persona che lo vive.
Ma chi ne parla in questi termini, lo ha vissuto davvero?
Ad oggi l’aspetto più doloroso dell’aborto sono i giudizi attraverso i quali bisogna passare per ottenerlo. Come a dire “Vuoi abortire? Eccoti servite quelle due o tre punizioni che ti insegnano a non farlo una seconda volta”; “Sei davvero così egoista da pensare solo al tuo bene? Sei una brutta persona, e meriti di soffrire per questo”.
I dolori dell’aborto hanno a che fare con la dignità percossa e ferita da chi giudica le nostre scelte; da coloro che vogliono umiliarci perché facciamo una cosa per il nostro bene.
Tutti parlano di aborto, ma le uniche protagoniste di questa narrazione sono le persone che lo vivono sulla propria pelle.
E nel raccontare quest’esperienza, nel raccontarci, rivendichiamo il nostro diritto di esistere, di occupare spazio e di cambiare il mondo.
Io ho abortito, e se oggi sto bene è anche grazie a questa scelta.
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