La vita mi lascia senza parole.
Perché io voglio descriverla a tutti i costi, voglio frammentarla in sequenze spiegabili, da vedere e rivedere ogni volta che voglio.
Invece la vita mi travolge e io resto stupefatta dall’estrema potenza con cui mi rivolta.
Dalla facilità con cui mi attraversa, e dalla forza con cui io provo a resisterle.
Tantissime volte apro la pagina Word e inizio a scrivere quello che penso sarà un articolo bellissimo; dopo le prime frasi, appena cinque o sei righe, però, mi blocco, e non so più andare avanti.
E per me questo è un problema: non trovare le parole per esprimere tutto quello che vorrei.
E allora scanso l’ostacolo come posso, dedicandomi ad altro.
Mi sono riempita la vita di immagini, di sequenza lunghissime in cui, ad un certo punto, non ho più capito chi fosse il protagonista, chi una semplice comparsa.
I miei pensieri fluiscono nella mia testa, ma arrivati al dunque si incantano, come me.
Lascio che lo sguardo della vita abusi di me, dei miei pensieri e delle mie azioni, perché io sono incatenata: la vita si aspetta da me qualcosa che non sono in grado di darle. E allora anche io non sono in grado di guardarmi nella vita.
Ed ecco però che ieri ho fatto un servizio fotografico con una persona che avevo incontrato una volta sola.
E io stavo lì, e i suoi occhi non erano più solo due, ma si erano fusi in uno solo, enorme, che scattava a poca distanza da me.
Il mio spazio vitale invaso da una macchina fotografica e dagli occhi che c’erano dentro.
Non solo uno spazio fisico, ma anche mentale: io devo darti quello che tu vuoi da me.
Lo sguardo di una persona che avevo appena conosciuto ha iniziato a pesare tantissimo su di me, influenzando la mia spontaneità.
Vuoi una modella, vuoi qualcuno che esca bene in foto, qualcuno che sia piacevole guardare.
E questa cosa mi faceva sentire bloccata, proprio a me che non vedevo l’ora di arrivare davanti a quella macchina fotografica.
Poi mi rivedevo nelle foto e non mi riconoscevo.
Espressione spaesata, un sorriso finto e tirato che cercava approvazione: “Vado bene così?” “Può piacere questa posa?” “Non è troppo così?”
Posso essere molto di più di un involucro per la paura.
Rivedermi è stato svegliarmi per andarmi a ritrovare, chissà dove, forse dietro quella porta che ho chiuso a chiave con tanta perizia.
E quel volto interrogativo, che cercava approvazione, un motivo valido per giustificare la mia presenza, i miei movimenti e le mie pose, è cambiato.
Che cosa voglio farti vedere?
Le regole del gioco ora cambiano: decido io cosa ti mostro.
Ed ecco che, foto dopo foto, ho iniziato a vedermi, a riconoscermi e a piacermi.
A non avere più paura di quello che volevo vedere dentro quella macchina fotografica. Di quello che volevo mostrare di me.
E oggi mi chiedo con quali parole posso raccontare questa vita che a volte mi spezza, e a volte mi risparmia, ma che sembra non darmi mai tregua.
E sequenza dopo sequenza, arrivo a domandarmi: ma io mi dò mai tregua? Mi concedo il beneficio di piacermi, di trovarmi, di accettarmi, senza imputare alla vita la responsabilità di lasciarmi senza parole?